Il Ghetto di Venezia

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Quando sono arrivati i primi ebrei in laguna? L’origine del nome Giudecca suggerirebbe una presenza abbastanza precoce, sebbene alcuni ritengano che il termine possa riferirsi all’espressione “del giudicato”, in dialetto veneziano zudegà: alcune famiglie accusate di aver cospirato contro la Repubblica erano infatti state imprigionate sull’isola di Spinalonga (così era chiamata inizialmente l’isola), da cui dunque Judecham, Zuecca e Giudaica.

Tra i numerosi documenti trecenteschi che testimoniano la presenza, o il passaggio, degli ebrei in laguna, spicca in particolar modo un decreto del 1386, attraverso il quale il senato veneziano concedeva loro un’area isolata al Lido per la sepoltura dei defunti. L’anno precedente, lo stesso senato aveva siglato un accordo con alcuni prestatori di denaro ebrei di Mestre, affinché potessero prestare moneta corrente ai poveri in Venezia.

Nel 1508, in seguito alla guerra della Lega di Cambrai, Venezia perse buona parte dei suoi territori sulla Terraferma e vide le truppe nemiche avanzare sempre più minacciose. Numerosi profughi, tra cui molti ebrei, cercarono riparo in laguna. Dopo la sconfitta di Agnadello nel 1509 la situazione si fece sempre più drammatica. I predicatori francescani da mesi andavano ripetendo che, al fine di riconquistare il favore di Dio, era necessario espiare i propri peccati, tra questi uno dei più gravi era quello di aver permesso ai giudei di vivere liberamente in città. Così, il 20 marzo 1516, quando il pericolo era davvero cessato, il patrizio Zaccaria Dolfin, propose in Collegio di confinarli all’interno del Ghetto Novo, un’antica area simile a una fortezza nella parrocchia di San Girolamo; il doge diede la sua approvazione, così come altri nobili, e il decreto venne formalizzato il 29 marzo.

Nei secoli precedenti, in quell’area sorgeva una fonderia: getto (da gettare) in dialetto veneziano, da qui l’origine della parola “ghetto”. Altri, tuttavia, sostengono che il termine derivi dall’ebraico ghet (ripudio, divorzio) o dal provenzale gaita (guardia), dal momento che l’area era sorvegliata da quattro guardie. Tuttavia, gli ebrei, a Venezia e altrove, erano soliti chiamare il ghetto con il termine ebraico chatzer (recinzione) e, in veneziano, hasser.

Dopo l’espulsione degli ebrei da Spagna (1492) e Portogallo (1496), molti dei viaggiatori che giungevano a Venezia erano mercanti ebrei levantini (chiamati così per il fatto che prima di giungere nella città marciana avevano fatto tappa, o si erano stabiliti, in alcuni porti del Levante, come Salonicco o Costantinopoli). Il 2 giugno 1541 fu loro concesso di occupare una lunga calle circondata da altre più piccole a ridosso del Ghetto Novo: il Ghetto Vecchio.

Nel giugno del 1579 Daniel Rodriga, illustre ebreo veneziano di origine iberica, avanzò la proposta in senato di accogliere in Venezia 50 famiglie di mercanti ebraici, ciascuna delle quali avrebbe sborsato una tassa di 100 ducati. I Cinque savi alla mercanzia diedero la loro approvazione soltanto nel 1589: ci si riferiva a loro non come ebrei spagnoli, marrani o nuovi cristiani, venivano bensì definiti, in modo più vago, ebrei ponentini.

Con l’arrivo della “nazione ponentina”, dopo quella “germanica” e quella “levantina”, prese forma l’“Università degli ebrei”, sotto questo nome divenne nota la comunità ebraica veneziana.

Isolato e ai margini più remoti della città, il ghetto diventò il palcoscenico per le storie degli ebrei del tempo. Vi si accedeva solamente attraverso i lunghi sottoportici che passavano sotto agli altissimi edifici, alcuni addirittura di nove piani – come si evince da alcuni registri catastali settecenteschi. Il campo si apriva su pianta circolare e tutte le finestre delle case si affacciavano su un unico punto focale. La circolarità si può ammirare tutt’oggi ma ora, su uno dei lati verso il rio di San Girolamo, si trova l’ottocentesca Casa israelitica di Riposo per anziani. Su un altro lato correva il Ghetto Vecchio, una lunga calle che ne incrocia altre più piccole e tortuose: Calle Storta, Corte del Moresco, Corte dell’Orto, Calle Barucchi, Campiello delle Scole e Scale Matte. Dalla parte opposta, collegato al campo da un ponte stretto, c’era il Ghetto Novissimo (un’area più circoscritta annessa nel 1633) con i suoi palazzi solidi ed eleganti, distretto prettamente residenziale per gli arrivi più recenti. Gli edifici all’epoca dovevano sembrare più alti di quanto non appaiano oggi, dal momento che le case erano meno fitte, c’erano molti giardini e le strade erano fangose e piene di terra. Le scale all’interno erano in legno, così da non caricare eccessivamente le strutture, allo stesso modo la gran parte delle pareti che separavano le stanze, dividevano le soffitte e sezionavano i piccoli appartamenti dai soffitti bassi e con i servizi condivisi.

Gli abitanti del ghetto erano impegnati in piccoli commerci di vario genere: oltre agli straccivendoli, c’erano artigiani, piccoli mercanti e tintori; altri erano impiegati nella produzione di olio, vino e cibo kosher, oppure gestivano locande per viaggiatori ebrei. I medici avevano un ruolo di particolare importanza in quella società ristretta, in cui altro importante evento fu la fondazione del rinomato centro editoriale ebraico.

L’apice dello sviluppo del ghetto si ebbe nel XVII secolo, periodo che al contempo marca anche l’inizio della sua crisi. All’inizio si contavano 700 abitanti, popolazione che continuò a crescere fino a raggiungere le 4.000/5.000 unità nel Seicento.

Nel frattempo, la Serenissima aveva iniziato il suo lento ma inesorabile declino e la sua egemonia sull’Adriatico venne presto messa in discussione. Negli anni tra il 1669 e il 1700, l’Università degli ebrei versò l’enorme somma di 800.000 ducati nelle casse del Serenissimo principe e, più tardi, altri 150.000.

Nel 1797, mentre la Repubblica vacillava sotto l’avanzare degli eserciti napoleonici, gli ebrei del ghetto mettevano a disposizione argento e oro nel tentativo di fornire un ultimo estremo aiuto alla città esausta, gesto che spinse il Senato – in quella che fu una delle sue ultime azioni – a emettere un decreto di ringraziamento nei loro confronti.

Durante il successivo regno austriaco, sebbene soggetti ad alcune restrizioni, gli ebrei iniziarono a godere di diritti fino ad alcuni anni prima inimmaginabili: acquistare proprietà, praticare professioni liberali, prestare servizio militare, ricoprire impieghi pubblici ed entrare a far parte di istituzioni culturali quali l’Ateneo Veneto, l’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti e l’Accademia di Belle Arti.

 

Nel 1866 Venezia divenne parte integrante del Regno d’Italia: la vittoria e il conseguente ingresso delle truppe di Vittorio Emanuele II furono salutate dagli ebrei con grande entusiasmo. Stando al censimento del 1869, risiedevano in Venezia 2.415 ebrei; di questi il 64% viveva nel ghetto e nelle aree limitrofe a esso e il 23% nella zona di San Marco. I nomi di alcuni membri della comunità si legarono ad alcuni importanti traguardi, come quello di Luigi Luzzatti (più tardi capo del governo italiano), il quale fondò l’Istituto commerciale superiore, l’attuale Ca’ Foscari.

Nel 1938 le leggi razziali si abbatterono sull’intera comunità ebraica nazionale. Gli ebrei veneziani, che ammontavano a circa 1.200, furono improvvisamente oggetto di discriminazione e banditi da luoghi di istruzione e posti di lavoro. La situazione peggiorò ulteriormente in seguito all’armistizio dell’8 settembre del 1943: i tedeschi occuparono la città e il 16 settembre il presidente della comunità ebraica, Giuseppe Jona, si suicidò per evitare di dover dare la lista dei membri ai nazisti. Nella notte del 5 dicembre, la Guardia Repubblicana Nazionale fascista effettuò un rastrellamento a Venezia, al Lido, a Trieste, nelle isole e a Chioggia. Più di cento persone furono arrestate, inclusi bambini e ragazzi fra i 3 e i 14 anni. Tra l’estate e l’autunno del 1944, le SS, su ordine di Franz Stangl, deportarono 22 residenti della Casa di Ricovero, 29 pazienti dell’ospedale, alcuni ricoverati negli ospedali psichiatrici di San Servolo e San Clemente e il rabbino capo della comunità, Adolfo Ottolenghi. Più di duecento ebrei veneziani furono deportati e solo sette di questi sopravvissero.

Dopo la guerra, la comunità, ridotta a 1.000 persone (nel 2000 il numero di membri è precipitato a 420), cominciò a ricostruire il proprio tessuto sociale e religioso. La vita nel ghetto a poco a poco riprese, prima con il trasferimento degli uffici della comunità precedentemente collocati in altre parti della città, poi grazie a iniziative culturali che fungono da polo di attrazione, per ebrei e non-ebrei, verso un luogo storico che è vivo ancora oggi e visitato da turisti di tutto il mondo.

 

Riccardo Calimani è uno scrittore e storico italiano.