I Luzzatto a Venezia

di

Amos Luzzatto è uno scrittore e saggista italiano.

 

Questo mio breve scritto può essere considerato una dedica alla città lagunare, offerta da uno che le appartiene da molti anni, pur non essendovi nato. Qui però mi sono sposato, qui sono nati i miei figli, qui sono vissuto per lunghi anni, fungendo anche, per un periodo, da presidente della locale Comunità ebraica.

La mia famiglia vi era giunta pochi secoli fa, a quanto narrano i ricordi tradizionali. Apparteniamo dunque a un gruppo di ebrei originari dalla regione tedesca della Lusazia. Arrivando nel Veneto portammo con noi due cose: il rituale di preghiera degli ebrei delle regioni tedesche (ashkenazita) e lo stemma (un galletto con tre spighe in una zampa, sovrastato da una semiluna e tre stelle a cinque punte: si trattava in realtà delle armi della cittadina sveva di Lübben, detta anche Lübbenau). Doveva trattarsi a suo tempo di un gruppo di famiglie abbastanza numeroso, tanto da avere a Venezia in Campo di Ghetto un proprio oratorio, il Midrash – detto anche Schola Luzzatto, tuttora esistente. I discendenti della famiglia hanno lasciato ampie tracce nella produzione letteraria e nel pensiero ebraico; altri ne hanno scritto estesamente. 

A me, modesto discendente, spetta il compito di mantenerne acceso il ricordo. L’ho fatto anche ritornando a stabilirmi nelle terre dove sono più forti le radici della nostra famiglia, anche se con una mai sopita predilezione – perché non ammetterlo? – per la vecchia Trieste e per il suo linguaggio.

Forse proprio per questo quando mi muovo per Venezia non posso fare a meno di chiedermi se questa nostra città si presenta più italiana o più europea. Sia ben chiaro: non sto cercando di dimenticare l’epopea risorgimentale e Daniele Manin. Ma ricordo sempre un mio viaggio, con la mia giovane moglie Laura, a Salisburgo, dove la padrona dell’albergo mi chiedeva che tempo facesse a Venezia, perché lei, «come molto spesso», intendeva trascorrervi il finesettimana. La sentiva tanto familiare da far sorgere il sospetto che considerasse la nostra città quasi un quartiere della sua (o forse vice versa...).

La storia della città, la stessa toponomastica, a me pare la stessa architettura, il bagnarsi nell’Alto Adriatico, le vie di comunicazione transalpine, ne fanno un crocevia di lingue e di culture. Più di una constatazione, si tratta di una promessa, che non sempre è stata mantenuta. “Crocevia” non significa semplicemente un luogo materiale dove genti diverse occasionalmente si vedono. Significa piuttosto un posto dove esse imparano a vivere e lavorare assieme.

La mia visione dell’avvenire di Venezia è tutta qui. Quando, come comincia a essere ai nostri tempi, le zone di “popolazioni miste”, di qua o di là di confini che sono ogni giorno più penetrabili e permeabili, sono sempre meno sacri confinidella Patria, da vigilare con le armi in pugno, e sono invece sempre di più palcoscenici di azioni comuni, di occasioni per conoscere meglio i propri vicini e per costruire assieme a loro un’atmosfera condivisa: il collocamento di una città come Venezia dovrebbe essere chiaro. 

Mi fa sempre piacere portare un esempio dal vicino mondo di lingua e di cultura tedesca. Esiste al centro della città, in un palazzo di stile veneziano, noto ai più che lo ammirano passando in vaporetto lungo il Canal Grande con il nome di “Palazzo della Terrazza”, un lodato Centro tedesco di studi veneziani; il nome, di per sé, è già un programma.

Mi chiedo: a quando un equivalente Centro veneziano di studi tedeschi, da collocarsi vicino a noi, ma oltre i confini e, per così dire, gemellato con il primo? È verosimile che non tutti – e io, forse, fra gli altri – si accontenterebbero, perché, come dice il noto proverbio, l’appetito vien mangiando. Sarebbe bello mettere in atto un’analoga iniziativa anche per l’altra cultura confinante a oriente con la nostra: con quella croata e slovena.  

Alle persone della mia età non può certo mancare il ricordo delle persone di lingua e cultura italiana che avevano dovuto abbandonare i loro averi in Istria e in Dalmazia; molti di loro erano giunti a Venezia, ne erano divenuti cittadini ma restavano nostalgici di un passato che si dimostrava, con il trascorrere del tempo, sempre più passato, sempre meno recuperabile. L’obiettività però vuole che, scavando ancora di più nel passato, giungiamo ai ricordi opposti, quelli di un esasperato nazionalismo italiano che aveva operato nelle stesse terre, ma cercando di cancellare la presenza e le tradizioni della loro componente slava.

Sono passate da allora più generazioni; le relazioni politiche ufficiali sono sicuramente migliorate; molti veneti addirittura possiedono oggi alloggi proprio in quelle terre, le frequentano spesso e, quando ci vanno, mescolano con la gente un dialetto veneto con locuzioni croate. Perché non dare fiato a un dialogo serio fra le due culture? Credo che la risposta a questa domanda sia al tempo stesso politica e culturale. In questa sede mi occupo sostanzialmente della seconda.

Non ho dubbi che la difesa del patrimonio artistico e culturale secolare di Venezia debba meritare l’attenzione, lo studio, i finanziamenti e i provvedimenti da parte di coloro che dirigono le sorti della città. Ma questo non può costringerci a mettere da parte quella che a me pare la domanda principale. Pensiamo a un futuro veneziano da grande museo, o vogliamo la città protagonista di una vita moderna, di una cultura internazionale, di una rinnovata creatività? Intendo un lavoro lungo, faticoso, spesso oscuro, che dia a Venezia una centralità nell’edificazione di una cultura autenticamente europea, pertanto senza pseudo-privilegi per lingue ritenute universali e male apprese, ma volte allo scopo di conoscere seriamente i nostri vicini e di farci conoscere da loro.

E soprattutto farlo assieme, per garantirci che dopo saremo in grado veramente di vivere assieme.