Ci sono pittori che conosci pur senza aver mai visto un loro quadro dal vero coi tuoi occhi – perché le immagini che hanno creato sono ormai ovunque, separate dal loro supporto materiale, dal contesto e dal luogo per il quale furono immaginate; immagini replicate, parodiate, diventate manifesti, icone, perfino pubblicità di un prodotto. Opere di tutti e di nessuno, sfuggite all’autore e alla storia.
Ci sono pittori che puoi incontrare in uno qualunque dei grandi musei del mondo. Pittori che furono fiorentini, umbri o lombardi e ora, senza averlo voluto o previsto, sono cosmopoliti, trapiantati di là dell’oceano o delle montagne, venerati e però in qualche modo anonimi, come tutti gli esuli.
E poi c’è Tintoretto. Lui no. Non lo si può identificare con una sola opera, un singolo quadro, un’immagine che valga a riassumere una carriera. Nei grandi musei del mondo vi sono sì alcuni suoi capolavori – la Susanna a Vienna, il san Giorgio a Londra, l’autoritratto da vecchio a Parigi, la Lucrezia a Chicago, le battaglie a Monaco, qualche ritratto a Madrid... Ma nessuno visita quei musei apposta per cercarli, e se pure li nota, tra le migliaia di altri quadri lì esposti, vi si sofferma davanti appena qualche minuto. Perché è nella sua città, a Venezia, e solo lì, che Tintoretto ci aspetta e si rivela.
Da secoli, tutti i suoi veri estimatori lo hanno scoperto a Venezia – lo hanno incontrato, a volte per caso, così come ci si imbatte in un ostacolo ineludibile della città, un ponte, un palazzo, una corte senza uscita. Tintoretto è la pietra d’inciampo di Venezia.
Anche il mio viaggio verso Tintoretto è iniziato così. Una mattina d’inverno ho varcato il portone di una chiesa solitaria, la Madonna dell’Orto a Cannaregio, e mi sono inoltrata nella navata gotica, a quell’ora deserta, attratta dalla luce che proveniva da un quadro appeso sopra la porta della sagrestia. Il quadro era La Presentazione di Maria al tempio. La grazia delle due bambine (Maria e l’anonima coetanea ai piedi della scala), la novità dell’architettura, la dolcezza del colore e la forza della muscolosa figura della donna di spalle mi hanno rivelato l’audacia di un pittore a nessuno secondo. Da allora, sono entrata in tutte le chiese di Venezia, perché quasi in ognuna Tintoretto ha lasciato memoria di sé. Una pala su un altare minore, un laterale nell’abside, l’altar maggiore, opere dipinte dalla giovinezza all’estrema vecchiaia – con ispirazione, talvolta, con mestiere, spesso. Ma ogni volta sfidando le aspettative dello spettatore e le sue, e sorprendendoci sempre.
Nonostante la bellezza di alcuni di questi teleri (non posso non citare almeno l’Ultima cena di san Marcuola e di san Giorgio Maggiore, la pala Milledonne di san Trovaso, la Sant’Elena della Mater Domini) si può perfino ignorarli. Perché il senso della vita e dell’opera di Tintoretto sono altrove: alla Scuola Grande di san Rocco. Nessun pittore del Rinascimento può vantare un museo proprio, uno spazio così vasto interamente dipinto da lui. Tutti, perfino Michelangelo, devono dividerlo con altri. Tintoretto si è conquistato – con l’astuzia e con l’inganno, col talento e con la devozione – questo inaudito privilegio. Ha finito per creare un monumento senza precedenti e senza eredi, che dovrebbe essere un simbolo dell’arte italiana e dell’arte universale. Eppure, stranamente, non lo è. La Scuola Grande di san Rocco ha tanti visitatori: dovrebbe averne infinitamente di più.
A volte mi dico che il problema è il nome. La parola Scuola evoca ricordi non sempre piacevoli, vagamente opprimenti. Una volta lasciate le aule, non vogliamo più imparare, pensiamo di non avere abbastanza tempo. Vogliamo passeggiare, godere la bellezza senza fatica. La Scuola di san Rocco non è una scuola. Ma Tintoretto ha molto da insegnare. Ecco un’altra delle ragioni per amarlo. Questo artista pretende la tua attenzione – il tuo cuore, ma anche il tuo pensiero. I suoi quadri non carezzano l’occhio, non consolano. Non si comprendono al primo sguardo: devi percorrere più volte l’intera superficie per identificare i personaggi, i simboli, lo spazio stesso. Tintoretto, che era noto per la velocità d’esecuzione e cui si rimproverava la fretta, chiede invece lentezza. Che tu entri nel suo mondo come si entra in casa d’altri – con rispetto. Allora ti accoglie, generosamente; ti dà tutto, ti racconta la storia dell’umanità, ti bombarda di figure, luci, lampi, silenzi – e anche se non credi in ciò in cui lui credeva, l’immensità concettuale e pittorica che ti circonda, la dedizione che deve essergli costata realizzare questo progetto, la grandiosa follia che anima la mano e la mente di chi lo ha concepito, ti fanno sperare che la salvezza sia possibile, e che l’arte ne è l’unica porta.
Non ama davvero la pittura chi non è rimasto qualche ora attonito, sopraffatto, meravigliato, nei saloni della Scuola di san Rocco.
Melania G. Mazzucco è scrittrice e saggista. A Tintoretto ha dedicato il romanzo La lunga attesa dell’angelo e la biografia Jacomo Tintoretto & i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana.