Si presenta qui in anteprima un estratto del testo
Il lettore come viaggiatore, la città come libro di Alberto Manguel.
Il testo nasce dalla collaborazione tra il festival internazionale
Incroci di civiltà a Venezia, organizzato dall’Università Ca’ Foscari Venezia e dal Comune di Venezia, e la Fondazione Musei Civici Venezia. Il testo integrale di Alberto Manguel verrà pubblicato
nella collana Incroci di civiltà-Fondazione Musei Civici
presso un importante editore veneziano.
Nel Museo Correr c’è una lapide, senza dubbio meno notevole e meno prestigiosa dei magnifici dipinti, delle sculture e del bric-à-brac collegati alla storia di Venezia ospitati nella nobile istituzione. Raffigura la testa di un leone sovrastante un’iscrizione che invita a depositare “denoncie secrete” contro i frodatori dei dazi. L’espressione corrucciata del leone e le sue guance paffute sono decisamente umani, mentre la criniera e le orecchie stilizzate che coronano il muso hanno qualcosa di curiosamente botanico; la creatura pare dunque appartenere a tre mondi – l’animale, il vegetale e il minerale1. Le fauci sono una fessura orizzontale pronta a “leggere” le delazioni. Quando le truppe francesi invasero Venezia nel maggio 1797, molte di queste bocche di leone e numerosi leoni alati, simbolo della città, furono scalpellati dalle facciate di edifici pubblici e privati; ne sopravvissero alcuni forse perché gli incaricati di quella missione iconoclastica erano più fedeli alla Repubblica che ai suoi nemici.
La bocca di leone nel Museo Correr è un simbolo di segreti traditi, di tradimenti segreti, e del sistema che permise a Venezia di preservare il proprio originale sistema di autocrazia democratica, avverso all’autocratico Napoleone. Il leone rappresenta anche, come è noto, l’evangelista Marco e naturalmente Venezia stessa, prima inter pares nel bestiario delle nazioni. Nelle raffigurazioni c’è senza dubbio qualcosa di più da leggere. C’è sempre.
Altorilievi e bassorilievi, doccioni, insegne, stemmi, decorazioni di fontane, mosaici, vetrate colorate, capitelli, vere da pozzo, strombature, chiavi di volta, singole sculture o dipinti: in città non c’è quasi nulla che non sia stato considerato adatto alla presenza del leone. Andante, con la testa frontale o scorciata, oppure seduto sulle zampe posteriori come un animale domestico in attesa; ridotto, come il gatto del Cheshire, a poco più che una smorfia, oppure con la sua intera muscolatura compressa in una cornice dorata e opulenta; la sua sagoma stampata in un ex-libris ufficiale, oppure custodita sotto una campana di plastica con la neve artificiale Made in China: a Venezia il leone è ovunque. E sempre, che sia nella sua animalesca presenza oppure riflesso metonimicamente nei suoi simboli e in ciò che lo circonda, il leone di San Marco rappresenta più di quanto presuma una qualsivoglia singola lettura. [...]
Come qualunque viaggiatore sa, a Venezia le mappe non servono a nulla. Solo l’esperienza reiterata delle rive e dei ponti, dei campi e delle facciate scintillanti consentono una qualunque conoscenza della sua tortuosa coerenza. Conoscere Venezia implica perdersi in lei come i Romantici parlavano di perdersi in un libro. Un autentico connoisseur di Venezia se condotto bendato in giro per la città saprà sempre dove si trova, riconoscendo al tatto o dall’odore o dai suoni, leggendo la città con l’occhio della mente, ogni curva e ogni svolta della sua forma.
Anche il Talmud, stampato per la prima volta a Venezia, è senza mappa, eppure un lettore saggio e perseverante saprà ciò che si trova ad ogni pagina grazie alla memoria e alla forza dell’abitudine. Alla Yeshiva si esegue una sbalorditiva prova di lettura, durante la quale si apre il Talmud a caso e si conficca uno spillo su una parola. Al lettore sottoposto all’esame viene domandato quale parola si trovi nella stessa posizione ad una data pagina. Una volta ottenuta la risposta, l’esaminatore sfoglia il volume fino alla pagina richiesta: se il lettore è un autentico erudito, qualcuno che “si è perso nel Talmud”, ed è dunque capace di visualizzare l’intero testo nella propria testa, la risposta si dimostrerà corretta. Uno studioso dotato di memoria fotografica era noto come Shass Pollak, da Shass, i sei ordini del Talmud, e Pollak, “polacco”2. Uno Shass Pollak, un vero lettore del Talmud, sa sempre dove si trova.
Nel XIII secolo, San Bonaventura osservò che dopo aver creato il Mondo per mezzo del Verbo, Dio percepì che esso appariva “quasi tramortito e spento” e “fu necessario, perciò, un altro libro, attraverso il quale il mondo venisse illuminato, così da ricevere le metafore delle cose (ut acciperet metaphoras rerum).” Bonaventura conclude: “Questo libro è la Scrittura che pone le similitudini, le proprietà e le metafore delle cose scritte nel libro del mondo.”3 Per Bonaventura, così come per i talmudisti, un libro (la Bibbia) permette di leggere l’altro libro (il Mondo) ed entrambi contengono essenzialmente lo stesso testo. I commentari talmudici continuano a copiare quel testo in altre parole, chiarendo ed espandendo, producendo nel corso del tempo una stratificazione di letture che riconosce nel Libro del Mondo un palinsesto vasto e infinito. In questo modo la lettura avanza in due direzioni: scava verso il testo centrale e universale nel tentativo di penetrarlo, e si protende verso l’esterno e verso la generazione dei lettori futuri con un testo individualizzato che si aggiunge senza fine alla pila.
Forse senza riconoscere come proprio questo processo di individuazione, anche Venezia esiste nella tensione di due impulsi di lettura. Da un lato essa sbandiera come poche altre città la propria mitologia e la propria storia, esige fin dal primo sguardo che si esplorino le sue radici immaginative nella terra e nell’acqua e nella pietra e negli accadimenti, richiede una profonda rivisitazione di ogni passo dei suoi visitatori, giù lungo i canali fino agli albori leggendari. Dall’altro lato è attraverso il susseguirsi delle letture storiche che Venezia vuole identificare se stessa nel presente, bollando qualunque nuova lettura a prima vista illuminante come ripetitiva, scontata, banale (“Il grande dipinto di genere che è Venezia...” disse Arthur Symons), e richiedendo letture sempre nuove. Venezia è incontentabile.
San Giovanni, lo stesso San Giovanni che dichiarò saggiamente “In principio era il Verbo”, ci dice di non amare il mondo né le cose del mondo perché “tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo.”4 Eppure il Verbo che nomina per creare e il mondo che viene letto per portare la vita a ciò che è stato creato non dovrebbero perdere di vista il mondo stesso. Tirando il lettore in due direzioni opposte contemporaneamente, verso la città teorica dei libri di storia e verso la città immaginaria delle storie e delle immagini, fin troppo spesso Venezia stessa (come il mondo di carne e pietre) in qualche modo si perde.
Alberto Manguel (Buenos Aires, 1948) è scrittore, saggista, traduttore e curatore di fama internazionale; è autore di molti libri vincitori di importanti premi
- Traduzione di Barbara Del Mercato -